Vittoria Matarrese

Conversano, Italia

Curatrice e studiosa con base a Parigi. Dopo una laurea in architettura si rivolge fin da subito all’arte contemporanea, alla danza, al cinema. É giornalista per Arte, i Cahiers du Cinema, Canal + e TV5. Dal 2008 al 2010 é direttrice artistica di Villa Medici (sotto Frédéric Mitterand), aprendola al pubblico attraverso una vasta programmazione culturale. Oggi, da direttrice della programmazione delle arti performative interviene nella programmazione del Palais de Tokyo e in particolare si occupa di performance, attraverso il festival DO DISTURB e il progetto di residenza La Manutention.

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art field

curatore, performance

keywords

multidisciplinarietà, nuovi pubblici, residenza, festival, performance, museo

context

Palais de Tokyo

date

Do Disturb 2018

Laurie Anderson diceva che la performance é “una forma di espressione che cambia sempre le sue regole”, un linguaggio mobile, che rifiuta la stabilità. Erano gli anni d’oro negli USA. Cosa é la performance oggi, cosa la distingue in un’epoca di ibridazione totale delle arti?

Direi che oggi non si tratta più di “cambiare le regole” quanto di assenza totale di regole. La performance oggi è talmente multipla, diversa, così sfaccettata che è difficilissimo cercare di inquadrarla in una definizione. Può essere fatta da un sol’artista o da un gruppo, che performa o fa performare altri artisti. Può durare un minuto come 24 ore, può richiedere una visione frontale o, al contrario, essere dispositivo partecipativo. Può coinvolgere la danza, la musica, il video… È caratterizzata da un’assoluta libertà di espressione. Forse questa oggi è la sua più bella definizione. E’ un mezzo immediato, che permette di reagire ad un processo sociale, poetico o politico con maggiore reattività rispetto ad altri linguaggi artistici. Creare una performance non richiede una minore riflessione, ma di certo si tratta di uno strumento molto più diretto.

Parlando di immediatezza… mentre l’arte e la danza contemporanee tendono ad essere assorbite da processi istituzionali, cosa ne è della performance? È ancora libera e in grado di dialogare con le culture urbane, i processi sociali, le contro culture e tutto ciò che è extra-artistico?

Penso che bisogni assolutamente desistituzionalizzare la performance o comunque non concorrere alla sua istituzionalizzazione. Ecco perché DO DISTURB è un formato assolutamente particolare. Nonostante si tratti di un appuntamento annuale in un’istituzione come quella del Palais de Tokyo, cerchiamo sempre di preservare la libertà che caratterizza la performance. Chiamimo a partecipare una scena molto giovane e altamente sperimentale, a cui lasciamo carta bianca rispetto all’utilizzazione degli spazi. Questo richiede una presa di rischio notevole da parte nostra, ma chi non prende rischi non sperimenta!

textcredit Katrin Jakobsen

DO DISTURB è alla sua quarta edizione, sei stata la prima a portare Anne Imhof in Francia (2015). Un festival che accoglie ogni anno tantissimi artisti, caratterizzato da forti partenariati internazionali. Tra i tanti: Moma PS1, Tate Modern, nel 2015; le tante scuole d’arte europee nel 2016; TBA Time Based festival (Portland), Santarcangelo festival, le Nuits Sonores nel 2017… Come nasce il festival? Cosa vi muove verso la costruzione di un network che cresce di anno in anno?

Il festival nasce dall’idea di voler difendere la performance, con un’intenzione di volgarizzazione e apertura al grande pubblico per affermare che la performance non è un’arte d’elite, non è riservata a pochi, anzi al contrario! Soprattutto quando mette in gioco contaminazioni con il mondo della danza, della musica… L’idea delle collaborazioni nasce dal fatto che abbiamo sempre voluto riconoscere di non essere gli unici a riflettere sulla performance. Aprendo a partner internazionali volevamo costruire una visione multiforme, innervare la nostra programmazione con nuovi punti di vista, che a volte sono interessanti proprio perché completamente diversi dai nostri.

Quali sono gli spettatori della performance oggi? Il pubblico di DO DISTURB é molto eterogeneo e di certo questo è uno dei suoi punti di forza. Come lavorate su questa apertura?

Il festival si fonda su un’idea di sincronicità della programmazione, un modello abbastanza unico nel suo genere. Più di 30 artisti in 3 giorni, con almeno 20 performance al giorno. L’idea è quella di immergere lo spettatore in una tale moltitudine di proposte che ognuno potrà trovare ciò che cerca e allo stesso tempo godere di scoperte inaspettate. Si crea in tal modo anche una passerella tra progetti più popolari e progetti più esigenti. Vogliamo che il festival sia un momento festivo, che si possa vivere in famiglia, aperto a tutte le età, a tutti i gusti e a pubblici provenienti da settori diversi.

Partner, progetti e programmazione di quest’anno?

Tra i partner di quest’anno: la Hayward gallery di Londra, lo Human Resources di Los Angeles, la A4 Art Foundation di Città del Capo, il Verbo festival di San Paolo e la Vinyl Factory. La Vynil Factory interviene sul progetto della coreografa Cecilia Bengolea, a sostegno dei due dj che accompagneranno la performance e guideranno la notte del 7 Aprile. Con loro diverse crew di danzatori jamaicani, una ballerina giapponese e un video dell’artista… Quest’anno volevamo creare una nuova geografia della performance. Oltre ai luoghi storici (come Londra), ci siamo soffermati sulle nuove tendenze della performance, per questo Los Angeles e Città del Capo. L’80 % della programmazione resta comunque nostra, artisti internazionali, tra cui quest’anno tantissime donne (per caso non per scelta), molti progetti che affrontano tematiche politiche, come sempre molta danza e il ritorno del testo. La scrittura era da un po’ scomparsa dalla performance e torna in quest’edizione di DO DISTURB attraverso l’oralità, la recitazione come strumento di narrazione.

Tanti giovani e giovanissimi! E’ la tendenza della performance?

E’ la mission del Palais de Tokyo quella di promuovere la giovane scena internazionale e francese. C’è anche qualche artista più confermato, come la nuova compagnia formata dagli ex ballerini di William Forsythe, Danse On Ensemble. Poi quest’anno una bella rappresentazione di artisti francesi. L’Institut d’Esthétique, che torna dopo una residenza al Palais de Tokyo, per riflettere sul diktat della bellezza, dell’eterna gioventù. A loro ho offerto uno spazio più grande e chiesto di invitare altri artisti. Ogni artista avrà a disposizione una cabina, come in vero istituto di bellezza. Sarà come un festival nel festival!

Assistiamo ad una tendenza performativa nell’arte visiva e un’apertura dei musei alle pratiche coreografiche. P. Parreno con Anywhere, anywhere out of the world nel 2012, Pierre Huyghe al Pompidou lo stesso anno, o dall’altra parte le mostre coreografiche, come la personale dedicata a Anne Teresa de Keersmaeker al Pompidou e i vari interventi di Virgilio Sieni alla Fondazione Prada… H. U. Obrist, per la sua mostra “il Tempo del Postino”, curata con Parreno, ha dato agli artisti “tempo” piuttosto che spazio. Forse la differenza è tutta qui, in un diverso approccio alla dimensione temporale della mostra, che da origine ad un’esperienza spettatoriale fuori dal comune. Cosa ne pensi?

Mi fa pensare a un bel libro di Mathieu Copeland “Choréographier l’exposition” che affronta il tema dell’esposizione performativa e quello della temporalità. All’interno di questa vasta riflessione, la resa di una mostra dipende molto dall’artista. In effetti Parreno e Huyghe sono molto vicini nella riflessione sul dispositivo espositivo, sul concetto di promenade dello spettatore, sensibilizzato a opere che sono architettura stessa. Poi ci sono artisti come Tino Seghal, che abbiamo portato con una personale al Palais de Tokyo (Carte Blanche à Tino Seghal, 2016 ndr). Anche lui lavora sulla mostra intesa come percorso, ma sotto una forma più orale e teatrale. Il suo lavoro si basa sulla relazione tra spettatore e performer, sul creare situazioni che portino lo spettatore a vivere internamente delle sensazioni senza nessun legame con oggetti esterni, a parte il rapporto che si instaura con i performer. In generale per me è una riflessione interessantissima, perché apre tantissime possibilità. Il performativo permette una reale interazione con gli spettatori.

Diverse possibilità di scambio e interazione con gli spettatori…il Palais de Tokyo riflette molto su quest’oltrepassare i limiti della mostra intesa in senso classico.

Con Jean de Loisy il Palais de Tokyo ha iniziato a cercare l’arte fuori dai territori tipici dell’arte. Nel 2015 una nostra mostra intitolava Le bord des mondes e andava ad indagare proprio l’arte in altri ambiti, l’arte ovunque. Questa ricerca per la performance è importantissima.

Parliamo de La Manutention recente progetto nato per sostenere la fase di produzione della performance. Contesto e modalità produttive hanno una relazione diretta con il prodotto artistico…

La Manutention è nata per approfondire il rapporto con gli artisti che si occupano di performance. Volevamo accogliere in residenza 5 o 6 di loro per un mese, dandogli la possibilità di organizzare quattro serate di apertura al pubblico. Per queste serate l’artista in residenza può collaborare con altri artisti, suoi partner abituali. L’idea è di creare dell’effervescenza, e soprattutto dare spazio, sostegno e visibilità alla performance. Pochissimi sono gli spazi in cui mostrare la performance. Spesso lo si fa in gallerie, centri d’arte, ma non ci sono spazi dedicati eminentemente alla performance.

E la Manutention sarà anche un luogo fisico, una casa.

Si, una casa all’interno de Palais che sarà inaugurata ad ottobre 2018 grazie al sostegno dei mecenati del progetto, tra cui anche un gruppo di architetti, Freaks Free Architects, uno dei quali è un artista che ha performato nel primo DO DISTURB. Gli artisti vivranno e lavoreranno nelle mura del Palais de Tokyo, che mi sembra un’avventura stupenda, per loro e per me!