Aurélien Bory
1972, Colmar, Francia
Studi universitari in fisica e primi passi nell'acustica architetturale, Bory approccia il teatro prima come interprete per poi, nel 2000, fondare la sua compagnia, la Cie 111. Il suo teatro si fonda sullo e nello spazio analizzando la relazione tra il corpo, la gravità, la scena e i suoi limiti. Meccanica e tecnologia giocano un ruolo preponderante nei suoi lavori in cui installazioni e spesso monumentali creano una drammaturgia di movimento dialogando con i corpi di danzatori, performer, circensi.
podcast
Aurelien Bory - asH.mp3
art field
danza
keywords
corpo, suono, scultura, paesaggio, tempo
context
Romaeuropa Festival
date
aSH, pièce pour Shantala Shivalingappa
L’intervista è stata commissionata dalla Fondazione Romaeuropa per i programmi di sala del festival.
Con aSH presenta a Roma il terzo capitolo di un percorso dedicato a ritratti di donne che il pubblico del Romaeuropa Festival ha potuto seguire nel corso degli anni assistendo a Plexus con Kaori Ito e a Questcequetudeviens? con Stéphanie Fuster. Come ha intrapreso questo percorso e cosa è per lei il femminile?
foto Aglae Bory
Credo che l’arte stessa sia femminile (in francese il sostantivo “arte” è maschile ndr) poiché richiede sia all’artista che allo spettatore una capacità di ricezione, nel senso di farsi ricettacolo, lasciarsi attraversare. Qualità che, personalmente, percepisco come estremamente femminili. Le tre protagoniste di questo percorso iniziato con Stéphanie Fuster, hanno consacrato la propria vita alla danza, anche attraverso scelte radicali. Donne attive, protagoniste del proprio lavoro, per le quali arte e vita si confondono. Per questa forza che esprimono portano con sé il femminile ma anche il maschile, in un equilibrio perfetto. Avrei potuto realizzare tre ritratti maschili, ma ho scelto invece queste tre donne perché in loro s’incarna una precisa idea di arte dalla quale sono stato attratto sin dall’inizio. Questo progetto mette in luce il rapporto di queste donne con la danza, tramutandolo in una metafora del rapporto dell’uomo con l’arte.
Come racconterebbe questi incontri? E in che modo il dialogo ha influenzato il suo modo di concepire la danza per questi spettacoli e per aSH in particolare?
Ho incontrato Shantala Shivalingappa una settimana prima del debutto di Questcequetudeviens?. Con lei, come con le altre danzatrici, si è creato un legame e un’intesa immediata: sono state per me tre muse che hanno ispirato tre differenti lavori. Si è trattato di un processo molto differente da quello, ad esempio, seguito per la creazione del “solo” con Pierre Rigal nel 2003 (Érection). Con Kaori, Stéphanie e ora con Shantala ho voluto creare qualcosa di più personale. La danza che portano in scena è strettamente legata alla loro vita.
Il suo teatro si basa su due principali elementi: lo spazio (che non corrisponde mai a quello reale e quotidiano, ma che sembra sfidare sempre le leggi della fisica, del corpo umano, della percezione) e il tempo (sempre reinventato e interamente dedicato all’attività contemplativa dello spettatore). Si tratta effettivamente di una cornice in cui di volta in volta si sono inseriti non solo i corpi e le biografie ma anche le modalità di lavoro della danzatrici da lei coinvolte. Come questa cornice ha accolto, questa volta, Shantala Shivalingappa?
foto Aglae Bory
Lavoro costantemente con il tempo e lo spazio. Per ognuno degli spettacoli di questo progetto ho voluto creare di volta in volta uno spazio che corrispondesse alla danza della protagonista. Per Questcequetudeviens? lo spazio era occupato principalmente da un bungalow, sinonimo di qualcosa di provvisorio ma anche durevole. Quando io e Stéphanie ci siamo conosciuti, lei studiava quotidianamente per migliorare il suo flamenco, una pratica che non le apparteneva per cultura e per nascita ma che aveva scelto con forza. Nel suo percorso verso la perfezione ha compreso che la danza è caratterizzata proprio da questa “provvisorietà”, da questo suo essere imperfetta: se dovesse essere un’abitazione sarebbe un bungalow. Nel caso di Kaori Ito ho realizzato uno spazio metafisico, attraverso cui il Giappone che aveva abbandonato sembrava riaffiorare in lei con tutte le sue ombre, le sue tradizioni, il rapporto con gli antenati e con i defunti. Sulla scena questo passato assumeva la forma di uno spazio pieno di ostacoli. La sua danza così virtuosa, così straordinaria e rapida s’installava in uno dispositivo quasi impossibile da danzare. La danza di Shantala Shivalingappa, invece, la definirei “centrata”. In scena dà l’impressione non solo di danzare tutti gli elementi ma di disegnarli, di generarli. Per questo in aSH ho scelto di costruire un dispositivo che è come un grande foglio di carta. Posto sul fondo della scena come una “skené”, quel telo che nel teatro greco fungeva da quinta e da cui deriva il termine “scena”, questo foglio simbolizza l’origine del teatro, della rappresentazione. Cosa c’è dietro il foglio? È proprio questa domanda che volevo mettere in risalto. Shantala è la danza che evoca il vuoto, l’invisibile principio di tutto l’universo. Ma il vuoto non è rappresentabile a teatro: una scena vuota non è il vuoto. Il foglio bianco, così, cela un mistero che rappresenta la forza stessa della danza di Shantala. Danzando Shantala fa esperienza di questo spazio ambiguo, mutevole e sonoro. Dall’esperienza nasce la rappresentazione, veicolo di comprensione e mezzo che permette di situarsi nel mondo secondo il pensiero indiano.
Parla di paesaggio sonoro anche…
Si questo spazio emana suono, prodotto da una macchina che batte contro la carta. Il macchinario é stato creata appositamente, un oggetto che, svelato alla fine dello spettacolo, resterà comunque misterioso. Il teatro e le sue macchine sono sempre state una grande passione e una grande fonte d’ispirazione per me. Questo suono è metafora della vibrazione del mondo, ritmo.
La figura di Shantala si sovrappone a quella mitologica e religiosa di Shiva, dio centrale nella religione induista. Due sono effettivamente gli elementi principali che ha assorbito dalla figura di questa danzatrice: l’apparato simbolico da una parte, il ritmo (elemento centrale nel Kuchipudi, la danza tradizionale attraverso la quale la stessa Shantala si è formata) dall’altra. Come convivono queste anime?
foto Aglae Bory
aSH si situa in uno spazio prettamente teatrale in cui la forza di gravità rende l’elevazione e la caduta processi costanti: la coreografia di Shantala si gioca tutta su un asse verticale. Allo stesso tempo, nello spettacolo, il foglio bianco si sposterà dal piano verticale a quello orizzontale. Shantala danzando ci disegnerà sopra con la cenere. Il disegno sarà rappresentazione delle forze in gioco nella sua danza: tutto ciò che non è possibile vedere, le presenze e le forze in azione nel mondo, trattate dalla mitologia indiana. Ecco, nella seconda parte Shantala disegna il mondo e queste forze, finché tutta la cenere si mescola, il disegno si distrugge, lei stessa entra a far parte di questa materia, si confonde con la cenere che la ricopre. Qui ritroviamo una figura mitologica, Shiva, questo dio che danza e che è coperto di cenere. La divinità che rappresenta il ciclo della creazione e della distruzione, della morte e rinascita indissolubilmente legate. La cenere è distruzione ma anche fertilizzante, elemento propizio al nuovo, al vivente.
Il mistero più che la religiosità è sempre stato parte del suo lavoro teatrale, basti pensare alla imperscrutabile oscurità di Plexus. In che modo questi elementi orientali sono entrati a far parte di questo ritratto? E come ha superato il rischio di rendere “esotica” la forza e l’immagine di Shantala?
Oltre alla mitologia indiana, un’altra importante fonte di ispirazione sono stati i Kolam, forme e disegni prodotti dalle donne indiane sul suolo utilizzando la farina di riso. Creati la mattina, i Kolam vengono distrutti durante la giornata dal vento o dai passanti. Una bellissima metafora che porta con sé l’idea di creare lo spettacolo e poi distruggerlo per ricominciare il giorno dopo. Un altro elemento in gioco è stato il ritmo del Kuchipudi, la danza indiana di Shantala, ma forse di tutte le danze indiane che Shantala ha praticato cominciando da giovanissima, prima di danzare con Peter Brook, Bartabas, Pina Bausch… in queste danze ritmate l’elemento della ripetizione è centrale. È stato sorprendente scoprire come nei gesti ripetuti da migliaia di anni si celino forme geometriche. Basta solo ripeterli in modo ciclico affinché diano vita a cerchi, spirali, punti: motivi che hanno un senso preciso anche nel pensiero e della mitologia indiani. Per quanto riguarda il rischio di “esotismo” credo sia stato sempre presente in questo progetto: lo era con il flamenco di Stéphanie, con il giappone di Kaori Ito, e lo è con la danza indiana di Shantala. Ma non ho scelto queste tre danzatrici per la cultura che rappresentano agli occhi del pubblico ma solo per la loro grande qualità. Amo queste donne, le trovo esemplari e forti. Sentivo il desiderio di lavorare con loro, di creare un ritratto che fosse in grado di mettere in luce la loro abilità, il modo in cui vivono la danza.