Julien Gosselin
1987, Oye Plage - Francia
Terminata l’Ecole professionnelle supérieure d’art dramatique de Lille (EPSAD), nel 2009 crea insieme ad alcuni suoi colleghi la compagnia Si vous pouviez lécher mon cœur (SVPLMC). Con loro, nel 2010 dà vita al suo primo spettacolo, Genova 01, dal celebre testo di Fausto Paravidino (debutto al Théâtre du Nord). Il rapporto stretto con la grande letteratura conteporanea è chiaro fin dal primo spettacolo che lo ha reso noto al grande pubblico Les Particules Elémentaires, dall'ononimo testo di Michel Houellebecq (2016). Altri autori portati in scena sono Don Delillo e Pier Paolo Pasolini.
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Falce e Martello
L’intervista è stata commissionata dalla Fondazione Romaeuropa per i programmi di sala del festival.
Non è la prima volta che si avvicina al lavoro di Don DeLillo e adatta la sua scrittura al teatro. L’anno scorso ha portato in scena i suoi tre romanzi: Giocatori, Mao II, I nomi attraverso uno spettacolo di quasi 10 ore. Oggi si avvicina ad un testo molto più breve, la novella Falce e martello. So che è il testo che le ha fatto scoprire il lavoro di DeLillo. Cosa l’ha attratta e cosa le ha fatto decidere di portare questo racconto in scena? Quali sono i temi che emergono da questa novella e che le stanno a cuore?
J. Gosselin, Falce e Martello
Lessi per la prima volta Falce e martello sul quotidiano Liberation - ormai un bel po’ di anni fa - e fu l’inizio della mia passione per Don DeLillo. Già alla prima lettura mi confrontai con una sensazione che divenne poi per me ricorrente di fronte all’opera di DeLillo: un forte stravolgimento emotivo accompagnato della sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa che non comprendevo fino in fondo. Una zona d’ombra abita la scrittura di DeLillo. All’epoca misi da parte il racconto per poi ritornarci spesso, ripetutamente, non solo per rileggerlo in solitudine ma anche per farlo leggere ad alcuni degli attori con cui lavoro o ai miei studenti, così poterlo ascoltare. È un testo scritto alla prima persona singolare, una specie di monologo che contiene quindi in sé una dimensione teatrale intrinseca. Come per ogni autore, anche le opere di Don DeLillo presentano dei punti di convergenza, uno strato di fondo accomuna i suoi lavori, non solo sul piano stilistico ma anche tematico: la violenza è declinata nei suoi scritti sotto diversi aspetti e circostanze. Si parla di terrorismo in Giocatori, Mao II, I nomi, mentre in questa novella la violenza è finanziaria e assume le sembianze della crisi economica. Devo dire che sebbene i temi affrontati da DeLillo mi stiano a cuore (il rapporto con il terrore, la catastrofe, la violenza del mondo) non scelgo mai un testo per i temi trattati.
Allora quale è il legame tra la scrittura di Don DeLillo e il suo teatro?
Questi temi così ampi (la guerra, la colonizzazione, la tecnologia) che convergono in quello della violenza, non sono mai trattati da una prospettiva ampia ma emergono da uno sguardo rivolto ai personaggi. È proprio avvicinandosi sempre più all’universo intimo dei personaggi che racconta, penetrando la loro bolla, respirandone la stessa aria, che DeLillo affronta le questioni del mondo. Nel mio teatro ho sempre cercato di trattare grandi temi ma con DeLillo è la prima volta che lavoro su un autore che affronta il “macro” dalla prospettiva privata dei personaggi. Questo mi ha subito affascinato perché mi permette di ritrovare una tensione emotiva e una dimensione di intimità teatrale. L’immagine video e i microfoni in questo lavoro hanno un ruolo fondamentale nella produzione di una dimensione ravvicinata che possa allo stesso tempo raccontare la violenza del mondo in modo semplice e diretto.
Politico e allo stesso tempo surreale, ironico, potente: Don DeLillo ha qualcosa in comune con un altro autore che lei ha amato, Houellebecq (a Romaeuropa nel 2017 ha presentato Le particelle elementari)… C’è un filo rosso fra questi due autori? E cosa invece li distingue?
Houellebecq, diversamente da DeLillo, delinea i suoi personaggi come degli animali sociali e in quanto narratore li osserva da lontano. DeLillo pone in campo una maggiore sensibilità, sensualità e fisicità che crea tensioni forti nei personaggi. Potremmo dire che un tale approccio sia l’esito del post moderno. In ogni caso il risultato è qualcosa di meno netto, meno “tranchant”. Penso però che ad accumunare questi due autori sia l’importanza e il potere che affidano al linguaggio, un linguaggio che può essere violento tanto quanto un corpo. Nel suo libro I nomi DeLillo racconta come nell’antichità lo stesso gesto era utilizzato per incidere delle parole su una lastra di marmo o uccidere con un bulino. “Dar nome” ha lo stesso potere della violenza omicida. La loro non è una letteratura celebrativa ma una scrittura che si posiziona come elemento attivo nel mondo, nel tentativo di comprensione della violenza.
Quanto dice mi fa pensare naturalmente a Pasolini. Un altro autore da lei molto amato.
Di Pasolini ho letto tempo fa poesie e scritti per il teatro mentre in questo momento sto approfondendo la sua letteratura. È come se lo scoprissi veramente solo ora ed è un autore che mi affascina sempre di più. Potrà sembrare strano ma più riesco a distaccare il Pasolini inscritto nella politica del suo tempo dal Pasolini sensuale, più riesco a comprendere la complessità del suo pensiero e il suo rapporto con la violenza, la politica, il terrore.
Questa volta porterà in scena un solo attore, Joseph Drouet. Mentre il suo teatro è spesso fatto da una comunità in cui diverse personalità formano un universo pieno di contrasti. In che modo la sua arte monumentale, fatta di grandi scenografie, tempi lunghi, una grande compagnia di attori (Si vous pouviez lécher mon cœur), si confronta con questa scelta monologante? Perché proprio Joseph Drouet?
J. Gosselin, Falce e Martello
Falce e martello è un testo che ho amato talmente tanto che avevo bisogno di vederlo con gli occhi. In Joseph Drouet ho trovato chi finalmente avrebbe potuto interpretarlo. Ci siamo incontrati al momento giusto. Il testo era presente già nello spettacolo di 10 ore, sempre recitato da Joseph. La sua interpretazione era talmente potente che abbiamo deciso di farne uno spettacolo a parte, modificandolo per renderlo autonomo. La scelta di un solo attore non deriva solo dalla struttura del testo che è un monologo. In effetti nella relazione con un solo attore ritrovo lo stesso rapporto con il teatro che ho quando lavoro con tanti attori. La vera difficoltà, per me, sarebbe lavorare con due o tre attori, poiché sarei costretto a confrontarmi con la nozione di personaggio, che è invece qualcosa che amo veder scomparire, divenire fluida. Questo è possibile solo con una folla di attori o un solo attore in scena: in ambedue i casi il corpo tende a scomparire lasciando spazio alle parole, al linguaggio, alla poesia, a qualcosa che potremmo semplicemente definire il “vuoto”. L’attore solo in scena è scrutato costantemente dallo spettatore che in un primo tempo lo identifica con un personaggio (quello del traditore prigioniero in questo caso) finché ad un certo punto il suo corpo scompare e restano solo le questioni legate ai temi della perdita, dell’oblio e del linguaggio. In un certo senso, quella di Drouet è una vera e propria “prova d’attore”, in cui Joseph incarna più voci e più personaggi. Mi interessava molto il trasformarsi di qualcosa di molto teatrale, di questo tipo di recitazione, in una presenza che fosse in grado di oltrepassare il teatro.
Gli attori hanno un ruolo fondamentale nel suo teatro ma sono quasi sullo stesso piano degli altri elementi scenici…
Ho bisogno degli attori, amo gli attori ma ciò che mi interessa di più è fare in modo che essi siano come una fotografia all’interno di un universo. Faccio un esempio: sto contemplando il mare del nord nella mia città natale, oppure sono al porto di Napoli e guardo il paesaggio, amo l’idea di poter guardare gli esseri umani come gli elementi di un paesaggio composto dalla forza del cielo, del mare, degli alberi, delle foglie, del suono… e che tutto questo all’interno di uno spettacolo produca un’unica immagine, un solo e unico elemento.