Christos Papadopoulos
1976, Atene - Grecia
Coreografo. Fondatore della compagnia Leon and the Wolf, all'inizio della sua carriera ha collaborato con il coreografo Dimitris Papaioannou. Da quest'ultimo si distingue poi notevolmente per stile. La usa è una scena occupata completamente e unicamente dai corpi dei danzatori, che con movenze ritmate si accordano ai ritmi della musica, spesso protagonista importante.
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Opus
L’intervista è stata commissionata dalla Fondazione Romaeuropa per i programmi di sala del festival.
Da quale desiderio nasce Opus?
É molto semplice. Quando ascolto la musica classica presto sempre molta attenzione alle diverse voci che compongono la partitura, sia a livello melodico che ritmico, voci che si mescolano tra loro come in un dialogo. Le modalità secondo le quali queste voci si completano a vicenda crea come un gioco di movimenti. Per Opus mi sono chiesto come riuscire a visualizzare la musica evitando qualunque interpretazione legata all’aspetto emotivo. Ero interessato unicamente al suo aspetto visivo. Volevo dar vita a qualcosa che ricordasse lo screensaver di un computer, di quelli che e hanno un potere ipnotico con i loro movimenti fluidi di forme. Come creare questo bizzarro e ipnotico screensaver umano? affrontando la musica come un sistema complesso di suoni e non solo come una melodia, allegra, moderata o lenta che sia. Quindi l’idea iniziale, il desiderio era molto semplice: in che modo è possibile visualizzare la musica?
C. Papadopoulos, Opus. foto Patroklos Skafidas
Opus è costruito sulle note dell’Arte della Fuga di J. Sebastian Bach, opera incompleta, sommo esempio dell’uso del contrappunto e di un’arte compositiva che trova armonia e poesia musicale attraverso strutture geometrico-matematiche esatte. In che modo questi elementi dialogano con la composizione coreografica?
Bach é il vero autore di questo lavoro! Fa tutto lui. Il primo mese e mezzo di prove abbiamo studiato la partitura musicale, suddividendola in voci e registrando ogni linea di strumento separatamente. Affidato uno strumento ad ogni danzatore, il primo obiettivo è stato quello che ognuno di loro apprendesse a memoria la propria linea musicale. Poi abbiamo associato un movimento ad ogni nota, in modo da ottenere una scala di due ottave e mezzo (quella utilizzata da Bach), circa 22 movimenti. E in seguito è Bach che ha creato la partitura coreografica. I danzatori infatti non hanno fatto altro che sostituire i movimenti alle note. Più di100 combinazioni di movimento, ognuna diversa ma simile, difficile è stato capire come navigare tra queste sequenze, seguire il ritmo e le note, lasciare che la musica agisse in loro, arrendersi allo spartito.
La tua seconda volta a Romaeuropa, dove nel 2016 presentasti Elvedon, coreografia ispirata al romanzo di Virginia Wolf Le Onde. Allora volevi immergere lo spettatore in un’esperienza simile a quella in cui ci si ritrova guardando le onde del mare. In un moto di rilassatezza e abbandono. Oggi cosa chiedi allo spettatore?
C. Papadopoulos, Opus. foto Patroklos Skafidas
Penso che continui ad essere il mio modo di guardare al lavoro artistico. Non costruisco mai un reale storytelling, con un inizio ed una fine. Desidero che lo spettatore si ponga in ascolto, riesca a rilassarsi e fare attenzione a come il corpo e la musica si incontrano nello spazio e dialogano tra di loro per poi esplodere in due direzioni opposte, in un tempo che è quello presente. Voglio che si percepisca che non é la musica che detta il lavoro del corpo ma il corpo che crea la musica. Vorrei che gli occhi aiutassero le orecchie ad ascoltare e sentire meglio. Di solito quando ascoltiamo la musica chiudiamo gli occhi. Con Opus voglio dare forza all’udito attraverso la vista per un’esperienza più completa. Permettere allo spettatore di vedere la musica.
Sembra essere importante nel tuo lavoro lo spunto che deriva da qualcosa di esterno, un altro linguaggio artistico che sia la scrittura o la musica in questo caso…
Non vedo la questione in questi termini, perché per me è sempre il corpo ad essere protagonista. Nel 2016, del libro di Virginia Wolf, non restava che questo ritmo che batte all’infinito, e un corpo alla ricerca di un movimento infinito. Ora il suono costruisce la cornice in cui il corpo può muoversi. La cosa più importante per me, e quindi la più difficile, resta sempre il modo in cui il corpo funziona. Ad esempio in Opus ci sta questo effetto come di una danza rotta, determinato dalla necessità di seguire il suono. La musica è abitualmente percepita come melodia, il nostro lavoro ci ha portati a guardarla da più vicino e capire come tra un “do” e un “re” vi sia un mondo. Naturalmente mi piace lasciarmi ispirare da qualcosa di esterno alla danza, ma questo qualcosa diventa il quadro e la motivazione per trovare la partitura fisica.