Romeo Castellucci
1960, Cenesa - Italia
Regista, artista visivo. Fondatore, nel 1981, con Chiara Guidi e Claudia Castellucci della Societas Raffaello Sanzio, compagnia che ha segnato la storia e le estetiche del teatro contemporaneo in Italia e nel mondo. Il teatro di Castellucci con la Raffaello Sanzio porta in scena, rivisitandoli, testi classici, tragedie greche e shakespiriane con un impianto visivo forte e scelte registiche radicali. Dallo scioglimento della compagnia, Castellucci si dedica alla trasposizione scenica di testi filosofici e poetici, nonché alla regia di opere liriche.
art field
teatro
keywords
corpo, teatro, tragedia
context
Romaeuropa Festival
date
Orestea (una commedia organica?)
L’intervista è stata commissionata dalla Fondazione Romaeuropa per i programmi di sala del festival.
Orestea (una commedia organica?) debuttò nel 1995: uno spettacolo feroce e poetico in cui la tragedia eschilea diveniva, tra gli altri riferimenti, il leitmotiv attraverso il quale affrontare il conflitto tra le regole della natura e la fredda razionalità della civiltà moderna. La Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia fondata da Romeo Castellucci insieme a Chiara Guidi e Claudia Castellucci, che allora con questo spettacolo tracciava un tassello importante nel proprio radicale percorso artistico, è oggi un punto di riferimento internazionale per i linguaggi teatrali contemporanei. Dopo ventuno anni Romeo Castellucci riporta in scena questo spettacolo che mantiene la medesima potenza comunicativa di un tempo.
foto Giudo Mencari
Che cosa ha significato nella storia della Socìetas Orestea (una commedia organica?)? Quale impatto ebbe nel 1995 e quale impatto ha oggi sugli spettatori?
Orestea fu uno spettacolo come tutti gli altri. Ho solo il ricordo del caos che alla fine dello spettacolo si lasciava sui palcoscenici. Se questo titolo ritorna nel mio lavoro attuale è perché il Festival d’Automne mi ha proposto di riprenderlo. L’ho fatto senza pensarci troppo, non perché lo ritengo speciale, ma perché spinto dalla fiducia in alcune persone che mi hanno raccontato di questo lavoro, come fossi uno sconosciuto. Il loro racconto mi è piaciuto. Rifare uno spettacolo dopo tanti anni non è una buona idea. Ma il fatto è questo: io non lo rifaccio affatto; lo trovo in terra, lo raccolgo come un oggetto ignoto, gettato da un uomo sconosciuto, una vita fa. Mi rendo conto che di fronte a questo titolo, paradigmatico per la Teoria del Tragico, sono costretto a riformulare alcuni pensieri. A partire da questo: il teatro antico e moderno che rispetto è disumano nel suo pessimismo antropologico. Lo spettatore è però in grado di affrontare il peggio - e il peggio, nella Tragedia, è sempre ancora a venire. L’indicibile prende forma con una manovra di glaciale precisione, e mi guarda negli occhi, io, spettatore. Ma gli spettatori qui non sono un orizzonte, sono un destino. Non sono interessato all’effetto che il mio lavoro - passato o presente - può avere avuto e possa avere sullo spettatore. Si potrebbe dire che non sono affari miei. Il lavoro non mi appartiene più dal momento in cui si apre alla profanazione della visione. Io lo saluto e lo lancio lontano da me, il più possibile. Detto questo lo spettacolo è lo stesso di 20 anni fa. Niente è stato cambiato, non una virgola, o un passo. È a tutti gli effetti una sorta di time-capsule. Certo, ci sono nuovi interpreti - a parte Nico Note, straordinaria Cassandra, unica testimone del 1996 – che restituiscono una tonalità differente. Gli spettatori devono sapere che è un lavoro che ha venti anni, la loro sarà un’esperienza di antropologia teatrale.
foto Giudo Mencari
In che modo la potenza originaria del testo di Eschilo è assorbita dalla scena?
Eschilo è fuori dal tempo e la mia messa in scena propone un taglio in verticale. Nessuna attualizzazione, per intenderci, nessun riferimento ai tempi attuali. Se questo teatro commuove è perché è scabrosamente primario nelle sue linee essenziali, come diretto e inflessibile è il rapporto della fame con il cibo, del freddo con il calore. È vero che, come mi dicono, le immagini che passano sulla scena appaiono a volte dure, ma è anche vero che ci muoviamo nell’ambito della tragedia: sono immagini che non ho inventato io. Il problema essenziale della tragedia greca è il problema di essere nati: da questo promana il carico di angoscia. È la vergogna di esserci. L’aischrón di cui parla Aristotele: la vergogna, appunto. Altri linguaggi artistici hanno pensato la morte ma il vero soggetto della tragedia attica parla del fatto di essere dei nati, dei viventi, l’errore di essere nati. E questo è Eschilo.
foto Giudo Mencari
Hai definito Orestea una tragedia “barbarica”, le più violenta della tradizione greca. Ci parli di questa violenza originaria e di che valore acquisisce oggi per il teatro?
L’estrema violenza eschilea racchiude un nucleo di assoluta dolcezza. L’essere umano, in solitudine, sotto un cielo vuoto. Queste parole sembrano tristi? Non credo. Per il greco, così come per il moderno, il dolore su un palco corrisponde a una forma di coscienza, oltre che un altissimo piacere. Se in un esperimento si potesse mettere in ombra l’edificio poetico esposto alla luce del sole, ciò che rimarrebbe dell’intera Orestea sarebbe un precipitato di violenza. Il vocabolario del poeta si fa gergo di caccia, ricco di tattiche, trappole, appostamenti vigliacchi, allusioni alla macellazione degli animali, vendette e, sopra ogni cosa, un odio distillato, geometrico, calmo. Se si prosegue in questo esperimento ci si accorge però che il duro carapace che avvolge i personaggi coinvolti nella tragedia altro non è che una forma di corazza tesa a protezione della nudità fragile dell’essere.
La materia essenziale di questa trilogia è la violenza colta nel colmo della parabola della sua virulenza. Ogni limite è superato, l’odio si scatena nell'intimità di una famiglia. L'indubitabile efficacia poetica del testo vacilla di fronte all'ossessionante ripetersi della violenza che penetra, come un gas, nelle commessure delle corazze. La parola poetica è solo una pallida comparsa che si dilegua di fronte al grido della scimmia, alla lingua scorticata, al rutto della gola recisa, di fronte, cioè, alla realtà ontologica della violenza. È la violenza il motore immobile e per questa ragione, in particolare in Eschilo, è ancora avvertibile l’eco del rituale sacrificale ora messo in crisi. La violenza di cui si parla è di origine teologica. Ma tutto ciò non suoni come un'apologia della violenza! Al contrario. Si tratta -al di là di ogni retorica certezza sulla tragedia che vede il centro solo nella poesia- di porre un'interrogazione alla tragedia partendo proprio da ciò che essa vorrebbe camuffare sotto il velo dell'ambiguità.
foto Giudo Mencari
Hai scelto di legare la tragedia eschilea all’universo favolistico di Lewis Carrol. Il corifeo che commenta l’azione tragica è rappresentato da un Bianconiglio. Come questo “altrove” dialoga con la matrice tragica?
Un altrove è presente fin dal titolo: Orestea. Una commedia organica? La si definisce Commedia, perché questo è la Tragedia. La Commedia vince su tutto. Ma la questione è posta in forma interrogativa, e allude forse al dramma satiresco mancante della più compiuta tetralogia di Eschilo. Un "Proteo" perduto, pare. Questa Orestea è un viaggio, che parte da Eschilo, rasenta Lewis Carroll e arriva a Antonin Artaud. Il Corifeo è un Coniglio, per definizione un vigliacco. Il coniglio selvatico è anche la figura iniziale nell’antefatto nella tragedia degli Atridi. Compare nella sacrilega battuta di caccia che Agamennone compie prima di salpare con le navi alla volta di Troia; è la causa pretestuale del tragico che vede implicata la giovane vergine Ifigenia, figlia di Clitennestra e Agamennone, richiesta come sacrificio dalla Dea (Artemide) offesa. Un coniglio compare come incipit anche nel libro di Carroll. All’ascensione verticale di Ifigenia corrisponde la caduta di Alice, dall’ordine superiore a quello inferiore: con Ifigenia-Alice questa Orestea segna in verticale, precipitando in un movimento misterico dove il mondo intero allude al teatro, dove il linguaggio deve rinascere passando per la propria morte rovesciata, passando attraverso la superficie delle cose. Il linguaggio giace sullo stesso piano degli elementi. Il linguaggio diviene lingua, verso e infine voce, una cosa che cade. Al di là dell’argento dello specchio ho trovato Antonin Artaud - senza volerlo e senza cercarlo -. Artaud che obbedisce al dottor Ferdière che gli prescrive terapeuticamente di tradurre il Jabberwocky di Carroll a Rodez, negli anni della sua follia finale. Il testo tragico di Eschilo subisce un deragliamento. Da Eschilo a Carroll, da Carroll ad Artaud, e da Artaud fino a noi.